La serra di Ward
Un viaggio nel tempo verso l'origine del terrarium





Questa straordinaria invenzione ha permesso di trasportare piante in tutto il mondo alzando esponenzialmente le probabilità di sopravvivenza delle piante. Ha rivoluzionato i paesaggi, coltivazioni, produzioni, giardini, collezioni botaniche di tutto il mondo. Queste mini serre trasparenti hanno permesso il trasporto delle piante per ogni angolo del globo a metà del XIX secolo.
Una scoperta del tutto casuale, ma intrisa di spirito di osservazione, che ha dato la possibilità a Ward di inventare queste magiche cassette trasparenti. Questo medico londinese con la passione per le felci, ha permesso di trasportare la vegetazione autoctona da un continente all'altro.
Nathaniel Bagshaw Ward nasce a Londra nel 1791, figlio di un medico chirurgo, di lui si sa poco sennonché a tredici anni, convinto di intraprendere la carriera in marina, fu imbarcato in un viaggio per le isole caraibiche.
Nei suoi primi viaggi Nathaniel rimase folgorato dalla bellezza della flora tropicale , con le sue foglie grandi, la geometria delle foglie della felce, e la perfezione dei fiori delle orchidee. Divenne la sua ragione di vita. Lasciò la marina e studiò come il padre medicina.
Il botanico Patrick Blanc ci guida in un'esplorazione delle foreste muschiose del Monte Kinabalu, nel cuore del Borneo. Tra i 500 e i 1500 metri di altitudine, questo straordinario habitat ospita oltre 15.000 specie vegetali, rendendolo uno dei più importanti hotspot di biodiversità al mondo. Un’immersione visiva tra felci, epifite e alberi antichissimi, che rivela l'intimità e la complessità della foresta tropicale asiatica.
Un uomo mite, studioso, ma con un'osservazione sensibile, Ward abitava nella sua casa/studio a Londra, a Wellclose Square nell'est End della città.
Una classica casa vittoriana, era quasi in periferia all'epoca e il medico possedeva un piccolo giardino dove era solito coltivare le sue piante. Appassionato di botanica, costruì un erbario con oltre 25.000 specie.
All'epoca la città era intrisa di fumi derivati principalmente dalla combustione del carbone e dall’acido solforico, tanto che nel 1905 fu coniato il termine smog da smokey fog, parola che usiamo ancora oggi.
Possiamo dire che oltre al terrario, è stato anche un precursore di quello che adesso si chiama "verde verticale" che va tanto di moda oggigiorno.
Nel suo giardino infatti realizzò un muro interamente ricoperto di felci e muschi che curava e bagnava regolarmente, nonostante la presenza di un inquinamento dell’aria che minava ogni suo tentativo.
Si preoccupò di installare forse il primo impianto di irrigazione a goccia che faceva svendere l'acqua come fosse una cascata.
Tutti questi sforzi furono vani perchè lo smog non permetteva alle piante di sopravvivere, nonostante le sue attenzioni.
Felci che crescono su un muro esposto a Nord
La scoperta avvenne quando Ward, una mattina del 1829, salvò un lepidottero, dal suo giardino. Mise il lepidottero dentro un barattolo con un po’ di terriccio umido sul fondo.
Chiuse il barattolo ermeticamente e se lo dimenticò sopra una mensola


Come è ovvio che sia, il lepidottero poco dopo morì, avendo terminato l'ossigeno. La scoperta che osservò Ward, è che sotto al lepidottero spuntarono piccoli fili di erba, e una piccola felce.
Il nome Acherontia atropos si riferisce alla macchia biancastra presente in posizione dorsale del torace, con l’aggiunta di due puntini neri, che è molto simile alla forma di un teschio.
La nomenclatura scientifica di questo esemplare è “Acherontia atropos”.
“Acherontia”, usato in riferimento all’Acheronte, uno dei fiumi infernali della mitologia greca, che doveva essere attraversato per raggiungere il regno dei morti. “Atropos” è un epiteto sempre associato alla mitologia greca, il quale deriva dal nome di una delle tre moire greche, Atropo, la quale aveva il compito di recidere il filo della vita nel momento della sua fine. Possiamo quindi chiaramente vedere, come anche la scienza si sia fatta influenzare dall’aspetto così peculiare di questo individuo e dall’alone di mistero che esso racchiude.

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Ward, essendo un attento osservatore, si rese conto che nelle ore più calde, sulle pareti del barattolo di formava una condensa, un umidità che con l'escursione termica ricadeva sotto forma di acqua umidificando il terreno in un ciclo perpetuo.
Considerando poi che l'aria inserita nel barattolo fosse priva di smog, e quindi pulita.
Le serre erano già in circolo da diversi anni. La scoperta non fu la coltivazione, ma bensì la condizione ermetica, dove ogni interazione con l'esterno era assente.
Le piantine di felce durarono 4 anni,. La morte fu provocata, non dalle condizioni dell'interno del vasetto, ma il tappo che si arrugginì facendo entrare aria inquinata.
La condizione di ermeticità del barattolo, fece si che il microclima interno fosse in stato di equilibrio atmosferico ideale per la respirazione delle piante. gli esperimenti proseguirono con diverse cassette di vetro e legno, che vennero distribuite per tutta la casa, per testare ogni tipo di esposizione.
Costruì anche una serra di 2 mt quadrati circa dove inserì oltre 50 specie differenti di piante.
Per garantire che la serra di Ward non venisse a contatto con l'aria esterna, scelse un legno duro e stagionato.
Era necessario un legno che potesse reggere gli sbalzi termici e quindi garantire la sigillatura della cassa.
Dopo aver perfezionato la sua scoperta, nel 1833 il botanico/dottore tenne una conferenza per spiegare il risultato dei suoi esperimenti alla Linnean Society, pubblicando successivamente un articolo sul Gardener's Magazine.
La nomenclatura scientifica di questo esemplare è “Acherontia atropos”. “Acherontia”, usato in riferimento all’Acheronte, uno dei fiumi infernali della mitologia greca, che doveva essere attraversato per raggiungere il regno dei morti.


I viaggi transoceanici erano davvero difficili, le condizioni di viaggio erano proibitive, per via dei tempi di navigazione. Non c'erano stive ermetiche, e le piante viaggiavano o in casse con assenza di luce per mesi, o a diretto contatto con il sole cocente, salsedine ed escursioni termiche impossibili.
Era infatti difficile riuscire a trasportare piante che resistevano al viaggio. Prima della serra di Ward, il transito di piante passava semplicemente attraverso la spedizione di semi. Gli imballatori conoscevano bene i semi e sopratutto i tempi giusti di raccolta, come asciugarli, e quando spedirli.
Attraverso le ricerche dello storico Stuart McCook, i semi venivano spediti in due modi:
coprire i semi con cera d'api e conservarli nel miele
metterli in contenitori di latta sigillati e rivestiti di seta.
Questi metodi erano efficaci per una percentuale bassa.
La percentuale di riuscita salì dallo 0,1 al 90% di sopravvivenza.
Una cifra esponenziale che strutturò i viaggi, cambiando il mercato commerciale delle piante.
Il pensiero prevalente sosteneva che le piante avessero bisogno di un'esposizione costante all'aria fresca per crescere durante i viaggi in mare. Sigillando la scatola e usando finestre con vetri, Ward ruppe con le convenzioni. Ciò era vantaggioso in un viaggio per mare in cui le scorte di acqua dolce potevano essere limitate e spesso i marinai non capivano come prendersi cura delle piante.
La serra di Ward, al contrario, è un ambiente quasi completamente sigillato che utilizza il processo di condensazione ed evaporazione per mantenere l'umidità. Il sistema era autoregolante e spesso non richiedeva irrigazione aggiuntiva. La Grande Esposizione di Londra del 1851 includeva un caso Wardian con una pianta che presumbilmente non era stata annaffiata da 18 anni.
Nathaniel Ward prese accordi con la Loddiges Nursery, il più importante vivaio di Londra che a quel tempo finanziava le spedizioni per la scoperta di nuove piante. Propose di testare i suoi terrarium riuscendo a cogliere prima di tutti il potenziale commerciale.
Con questa azienda, Ward spedì due serre in Australia nel 1833 inserendo felci native inglesi.
Ci vollero quasi 6 mesi per attraversare l'oceano, e quando approdarono a Sydney, ci fu la bellissima sorpresa che le piante erano vive. E così si riempirono di nuovo con piante australiane, e fecero il viaggio di ritorno in circa 8 mesi.
Il viaggio di ritorno fu la conferma che il metodo funzionava.
Ward pubblicò un articolo che mandò alle comunità scientifiche, dal nome “The growth if Plants without open exposure to the Air”, in cui descrisse il suo terrarium. Nel 1842 uscì il suo libro dal nome “On the Growth of Plants in Closely Glazed Cases”.
John Gibson, pupillo di Paxton, che partì per l’India nel 1835 per conto del duca del Devonshire, in un viaggio che lo tenne lontano dall’Inghilterra per oltre 2 anni e che riportò al duca più di 80 specie di orchidee diverse, tra cui quello che venne chiamato Dendrobium devonianum, che fiorì per la prima volta nelle serre di Chatsworth nel 1840. Facendo partire l'orchidelirium dei cacciatori di orchidee

Il riconoscimento a questa stupenda scoperta arrivò a vent'anni dal suo utilizzo, esattamente ne 1854 dalla Royal Society con una cerimonia al Chelsea Physic Garden, entrando finalmente nella storia.
Il periodo storico era propizio per via del sempre interesse all'esotico e al collezionismo, era il periodo delle esposizioni universali e la gente aveva fame di nuove scoperte e le persone collezionavano oggetti provenienti da tutto il mondo.
Oltre agli oggetti, e grazie a questa intuizione, le case vittoriane si riempirono di piante tropicali, orchidee, serre che fecero anche da contorno ad animali esotici.
Si perfezionò il design in stile gotico, e divennero dei veri e propri oggetti del desiderio.
La serra ideata da Nathaniel Bagshaw Ward fu pensata soprattutto per tutti, dato che anche persone meno abbienti potevano permettersela. Tuttavia fu la classe media che aggiunse i terrari nel proprio salotto, come elemento decorativo e di status sociale. Dopo il periodo illuminista la cultura vittoriana è ancora intrisa della cultura del dominio della natura, furono assaliti dalla mania di felci e sopratutto orchidee, l'emblema del fiore esotico.




La serra di Ward non fu solo un'innovazione tecnica, ma anche un simbolo di un'epoca in cui la natura esotica diventava parte integrante della vita quotidiana. Questo piccolo ecosistema autosufficiente anticipa quello che oggi conosciamo come la cultura del terrarium: un microcosmo verde che porta con sé il fascino di mondi lontani, adattandosi perfettamente agli spazi moderni. Proprio come nel periodo vittoriano, anche oggi il terrarium rappresenta un connubio tra design e botanica, continuando a soddisfare il nostro desiderio di esplorare e collezionare la bellezza naturale.
Questa invenzione rivoluzionaria ha modificato non solo il mondo del collezionismo botanico, ma ha anche contribuito a modellare il mondo che conosciamo oggi.
Se sei arrivato fin qui, potresti essere pronto a portare un piccolo ecosistema nella tua vita.
Scopri tutto ciò che c’è da sapere nel nostro articolo "Tutto sul terrarium: Cura, manutenzione e quali piante scegliere" e inizia il tuo viaggio nel microcosmo tropicale!


Cosa rende una pianta “da sottobosco”?
Stabilire con precisione cosa definisce una pianta da sottobosco richiede un criterio funzionale. Non basta sapere dove cresce, ma come vive. Un elemento chiave è il fatto che l’intero ciclo di vita della pianta avvenga sotto i 2–3 metri di altezza, incluse le fasi di fioritura e riproduzione.
Ad esempio, una palma che fiorisce a 1 metroe cresce fino a 8 metri può ancora essere considerata una specie del sottobosco, poiché la sua sessualità si manifesta vicino al suolo, anche se poi può raggiungere dimensioni maggiori.
Un caso emblematico è quello delle ninfee tropicali. Nei ruscelli ombrosi del sottobosco, alcune specie si propagano vegetativamente attraverso stoloni, formando tappeti densiperfettamente adattati al microclima forestale. Tuttavia, in queste condizioni, non sviluppano foglie galleggianti né fiori: rimangono in una forma “vegetativa permanente”, stabile ma non riproduttiva.
Solo quando crescono in zone più luminose, come stagni o corsi d’acqua aperti, le stesse piante possono espandersi, produrre grandi foglie galleggianti e fioriture sessuate. Questo dimostra che una stessa specie può esistere in due stati stabili, uno adattato all’ombra e l’altro alla luce. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le piante da sottobosco completano l’intero ciclo vitale nella penombra, senza mai uscire da essa.
In questo senso, essere “da sottobosco” non è una condizione momentanea, ma un modo di esistere definito ecologicamente e morfologicamente, modellato dalla luce, dall’umidità, dalla struttura del terreno e dalla pazienza di adattarsi all’attesa.
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🌿 Erbe o arbusti? Una differenza sottile (e spesso invisibile)
Nel contesto del sottobosco tropicale, la distinzione tra erba e arbusto non è affatto semplice. L’unico vero criterio discriminante è anatomico, e riguarda la lignificazione del fusto: ovvero la produzione e il deposito di lignina, una sostanza che conferisce rigidità e resistenza meccanica alle pareti cellulari.
Negli arbusti, la lignina si organizza in fibre, aiuole o anelli continui di tessuto legnoso, rendendo il fusto solido e capace di resistere al vento o al peso proprio. Ma nel sottobosco, dove l’aria è immobile e il vento è pressoché assente, anche una pianta alta diversi metri può restare eretta senza lignificazione, semplicemente grazie al turgore idrico dei tessuti. L’acqua che riempie le cellule fornisce la rigidità necessaria per mantenere la posizione verticale.
Per questo motivo, nel sottobosco la distinzione tra erba e arbusto tende a sfumare, e spesso non ha grande valore funzionale. In un ambiente dove il problema meccanico è minimo, non servono tessuti legnosi per reggersi, e la selezione evolutiva ha privilegiato strutture leggere, modulari e facilmente rinnovabili.

🌿 Lo sapevi che…
Nel sottobosco tropicale possono esserci fino a 4000 piante in 1000 m²?
Mentre la chioma degli alberi è relativamente uniforme, il sottobosco ospita una biodiversità esplosiva. In aree umide e luminose, la densità vegetale può superare i 3000–4000 individui ogni 1000 m², contro i 5–7 grandi alberi nello stesso spazio.
Il rinnovo del fogliame: efficienza, non espansione
Una delle caratteristiche più peculiari delle piante da sottobosco è la loro strategia fogliare conservativa: per ogni foglia nuova che compare, una foglia vecchia cade. Il bilancio rimane stabile, e l’area fotosintetica della pianta non aumenta, ma si rinnova costantemente.
Questa strategia è l’opposto di quella degli alberi della chioma, che durante la loro vita aumentano progressivamente la superficie fogliare grazie alla crescita secondaria del fusto (attività cambiale) e alla formazione continua di nuovi rami. Nei grandi alberi, l’accrescimento fogliare è massimo nella fase giovanile, mentre invecchiando si riduce e viene compensato da una “potatura naturale”: la perdita dei rami più vecchi supera la nascita di nuovi.
Nel sottobosco, invece, la mancanza di lignificazione impedisce l’ispessimento dei fusti e la formazione di rami secondari. Tuttavia, alcune specie hanno trovato soluzioni alternative: diventano rampicanti o striscianti, e sviluppano nuove radici vicino alle foglie emergenti, garantendo a ogni segmento di fusto l’accesso indipendente a risorse idriche e minerali.
In pratica, ogni tratto di fusto diventa un individuo autosufficiente. Anche in caso di rottura del fusto principale, le parti staccate continuano a vivere e crescere autonomamente. È un modello vegetale decentralizzato, modulare, resiliente.
♻️ Eternamente giovani: la longevità senza tronco
Alcune piante del sottobosco adottano una strategia ancora più estrema: si rinnovano dalla base all’infinito, emettendo continuamente nuovi fusti. Ogni nuovo getto mette radici proprie, diventando parzialmente o totalmente indipendente. Il risultato è una pianta cespugliosa, in perenne stato di rinnovamento.
Questa modalità vegetativa le rende, almeno teoricamente, potenzialmente immortali: non esiste un singolo “tronco” la cui morte determina la fine della pianta, come accade invece per un albero.
A differenza di una sequoia che può vivere anche 4.000 anni ma che ha un ciclo vitale lineare, queste piante funzionano per cloni successivi, rigenerandosi continuamente, senza invecchiare.
La loro scomparsa avviene solo in seguito a cambiamenti ambientali drammatici, su scala climatica o geologica: lunghi periodi di siccità, trasformazione dell’ecosistema (es. da foresta umida a foresta decidua, o da foresta a savana), eventi eccezionali come incendi o disboscamenti massicci.
Questo tipo di adattamento ci mostra che nel sottobosco non vince chi cresce di più, ma chi rimane adattabile, flessibile, rigenerabile. È la longevità come resistenza, non come grandezza.
Cosa rappresentano le piante del sottobosco? Dimensioni, densità e dinamiche ecologiche
Contrasto tra chioma e sottobosco: uniformità contro diversità
Se confrontiamo lo strato della chioma degli alberi più alti con quello delle piante del sottobosco, il divario in termini di variabilità morfologica è impressionante. Nella chioma, le dimensioni delle corone sono relativamente omogenee: si va dai 5 ai 10 metri di diametro, fino ai 20 metri per specie giganti come le Mimosaceae, indipendentemente dal microambiente.
Nel sottobosco, invece, regna la diversità estrema. Le piante si adattano a pendii, pareti inclinate, tronchi caduti, rocce, anfratti, dando vita a una variabilità morfologica notevole, legata più al substrato e all’umidità che alla specie.
Anche in termini di densità, il confronto è eloquente.
In una porzione di 1000 m² di foresta tropicale:
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Si possono trovare 5–7 alberi con diametro >40 cm
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Circa 50 alberi con diametro di 10 cm
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E fino a 250 piccoli alberi
Nel sottobosco, invece, non esiste una regolarità simile. In zone favorevoli (come versanti umidi), si possono contare anche 3000–4000 individui per 1000 m². In altri casi, un solo individuo può ricoprire da solo 10 m², estendendosi vegetativamente. Le densità più elevate si registrano nei pressi di alberi giovani, che lasciano filtrare più luce.
Densità estrema e movimento fogliare: le reofite
Esistono biotopi dove la densità vegetale raggiunge limiti estremi, come nei corsi d’acqua con forte corrente. Qui crescono le piante reofite, capaci di vivere in ambienti saturi di umidità e soggetti a flussi d’acqua continui.
In questi ambienti, si possono registrare fino a 500 individui per metro quadro. Le foglie, immerse nell’acqua o mosse dalla corrente, si espongono in modo dinamico alla luce, aumentando di fatto la superficie fotosintetica effettiva rispetto a quella proiettata al suolo. Questo movimento continuo permette a queste specie di raggiungere altissimi livelli di produttività per superficie occupata.




Il viaggio nella giungla continua...
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